mercoledì 25 novembre 2009

Fu Vittorio Emanuele III a creare l'Istituto Internazionale di Agricoltura, provenitore della FAO

di WALDIMARO FIORENTINO
Il recente vertice internazionale della FAO tenutosi a Roma e l’attenzione che ha suscitato hanno riproposto il tema della fame che affligge gran parte dell’umanità e, pertanto, anche l’esigenza di un mondo più solidale e più giusto.
Quello che pochi sanno è che l’attenzione su questi temi, in maniera meno cruenta e spettacolare, ma assai più concreta venne richiamata proprio dall’Italia, che fu, dunque, il primo Paese al inondo a lanciare la crociata contro la fame già quasi un secolo fa, quando il mondo si cullava ancora nella beata incoscienza degli ultimi scampoli della «belle époque».
L’idea della costituzione di un simile organismo era venuta per primo a David Lubin, un americano nato in Polonia da famiglia israelita, che dalla sua esperienza di uomo d’affari aveva tratto la convinzione della necessità di mantenere nell’ambito della moderna economica capitalistica un certo equilibrio tra settore industriale e agricoltura. Dopo aver inutilmente cercato di convincere il governo americano a farsi promotore di una iniziativa di questo tipo, venne in Italia e si rivolse a Vittorio Emanuele III, che ricevette lo studioso a San Rossore, dove il sovrano si era recato per passare qualche giorno con la regina Elena reduce dalla maternità per la nascita del futuro Umberto II.
Lubin ebbe fortuna, perché il re comprese subito l’importanza del progetto e dette incarico allora presidente del Consiglio Giolitti di preparare una conferenza internazionale. Nel messaggio indirizzato al suo primo ministro per incaricarlo della istituzione di quell’organismo, Vittorio Emanuele III si espresse così: «Le classi agricole, benché siano le più numerose, vivendo disgregate e disperse, non possono da sole provvedere abbastanza né a migliorare, né a distribuire secondo le ragioni del consumo le varie colture, né a tutelare i propri interessi sul mercato, che, per i maggiori prodotti del suolo, facendo mondiale. Di notevole giovamento potrebbe quindi riuscire un istituto internazionale ... cosicché ne fosse agevolata la produzione, reso meno costoso e più spedito il commercio e si conseguisse una più conveniente determinazione dei prezzi: Questo Istituto, procedendo d’intesa con i vari uffici nazionali, fornirebbe anche notizie precise sulle condizioni della mano d’opera agricola nei vari luoghi, in modo che gli emigranti ne avessero una guida utile e sicura; promuoverebbe accordi contro quelle malattie delle piante e del bestiame, per le quali riesce difficile la difesa parziale; eserciterebbe finalmente un’azione opportuna sullo svolgimento della cooperazione rurale, delle assicurazioni e del credito agrario… un Istituto siffatto, organo di solidarietà fra tutti gli agricoltori e perciò elemento poderoso di pace…».
L’iniziativa riscosse subito consensi generali. Uno dei più autorevoli quotidiani dell’epoca, «La Tribuna», nel numero di sabato 11 febbraio 1905 dedicò all’annuncio dell’evento un intero paginone e nell’articolo di prima pagina sottolineava lo spirito della istituzione: «Che il pane quotidiano a tutti i cittadini del mondo al minor prezzo ed in misura sufficiente, e che agli agricoltori di tutto il mondo sia retribuita la miglior mercede e sia aperto il mercato più vasto possibile è concetto tanto più geniale quanto più semplice». E «La Tribuna illustrata» dedicò la copertina del numero del 26 febbraio dello stesso anno all’incontro tra Vittorio Emanuele III e David Lubin ritratti nell’atto di stringersi la mano.
Consensi vennero pure dall’estero; il britannico «Daily Telegraph» scrisse: «… la proposta del Re d’Italia è degna di essere appoggiata, perché quantunque ci possano essere dubbi sulla quantità del bene che può fare, è fuori dubbio che non può fare che del bene».
Anche «L’Alto Adige», che allora si stampava a Trento, dedicò più titoli in prima pagina alla «Iniziativa pacifica del Re», che, considerata la fede degli estensori, evidentemente, non aveva bisogno di specificazioni; il foglio trentino, riprendendo una notizia pubblicata dal britannico «Evening Standard», fece sapere che era stato Guglielmo Marconi a consigliare Davide Lubin di rivolgersi a «Vittorio Emanuele, sovrano moderno ed illuminato»; e, nel numero di lunedì 13 e martedì 14 febbraio 1905, riportò il seguente telegramma inviato da Francesco Giuseppe a Vittorio Emanuele III: «Non voglio tardare a felicitare Vostra Maestà dell’iniziativa presa per la creazione di una istituzione internazionale d’agricoltura che io non dubito troverà in tutti i paesi una eco di simpatia»; telegramma cui il sovrano italiano rispondeva con un altro di analogo tenore; e sempre «L’Alto Adige», nei giorni successivi, riportava un’altra serie di telegrammi di felicitazione e di consenso inviati al Quirinale da capi di Stato di tutto il mondo.
Addirittura traboccante d’orgoglio finanche superiore a quello espresso dalla stampa italiana il commento de «Il Piccolo» di Trieste, città che all’epoca faceva parte dell’impero austro-ungarico: «Il pensiero nato a Roma ha l’impronta della città universale… Nel giovane Principe promettevano i conoscitori un uomo di vasto intelletto e di libero giudizio, capace di dar fiamma alla scintilla di una verità che gli venisse rivelata; i primordi del Re d’Italia non li smentirono: oggi con la sua proposta mondiale a favore dell’agricoltura è venuta la fiamma…La splendida pagina dell’intelligenza moderna che il Re d’Italia ha avuto l’onore di segnare con il suo nome… è affermatrice e tutrice di pace e di fratellanza, enunciando la necessità di sommare e non di dividere gli interessi delle nazioni, perché da questi traggano il massimo vantaggio comune; è parola di redenzione e mano tesa generosamente alla povertà di mezzi e allo spirito delle classi agricole, perché si sollevi dal suo umile stato ed in pari tempo intervento dell’alto potere per reprimere quell’affarismo senza scrupoli che determina lo spietato rincaro dei generi di consumo onde soffre, non una nazione o l’altra, ma tutta l’umanità».
Dunque, uno spirito che dava risposta con un secolo di anticipo alle istanze del cosiddetto «popolo di Seattle»; naturalmente a quello che cerca risposte e non pretesti per scatenare guerriglie.
Ma perché Davide Lubin scelse l’Italia per la realizzazione del suo progetto? Lo spiegò egli stesso in una intervista pubblicata in quei giorni: «Innanzitutto perché il Re d’Italia, malgrado l’età giovanile, ha una mente colta ed esperta in tutte le questioni che interessano il bene dei popoli, on­de era più agevole ottenerne un illuminato consenso. Poi, perché l’Italia è una nazione di media importanza nell’agricoltura internazionale, onde non potrà destare le gelosie delle altre nazioni lanciando l’appello, ciò che invece avverrebbe se questo facesse l’A­merica, che monopolizza i raccolti del cotone, del mais, ecc., o la Russia, che esercita un gran peso nel commercio dei grani, o l’Inghilterra e la Francia che hanno molti e forti mercati di incetta delle derrate alimentari. Infine, perché l’Italia con le bellezze del suo suolo e con le classiche glorie della sua, storia, forma un’attrattiva per gli stranieri di qualsiasi nazionalità, e provoca l’affetto e la simpatia, di tutte le nazioni».
Fatto sta che il 7 giugno 1905, in una solenne adunanza, i rappresentanti di numerosi Stati aderirono all’iniziativa italiana, sottoscrivendo l’atto costitutivo dell’Istituto, che prese sede a Roma, nell’edificio fatto costruire appositamente dal sovrano italiano a Villa Umberto e concesso in uso gratuito all’organizzazione.
L’Ente traeva i suoi finanziamenti in massima parte dai contributi degli Stati aderenti, che andavano da un minimo di 12.500 lire ad un massimo di 200.000 lire (di allora) e dalla somma annua di 300.000 lire messa personalmente a disposizione da Vittorio Emanuele III, il quale, dunque, oltre ad aver donato la palazzina che doveva servire da sede all’Istituto, versava annualmente nelle casse dello stesso una somma di gran lunga superiore al contributo di qualsiasi Stato.
L’istituzione voluta dal sovrano italiano conquistò anche il mondo cattolico di casa nostra, che pure era in contrasto con il Regno d’Italia dopo la «breccia di Porta Pia»; l’assemblea del Partito Popolare (come allora si chiamava il Partito cattolico), a conclusione del Congresso nazionale tenutosi a Torino nell’aprile 1923, votò all’unanimità un lungo e denso ordine del giorno nel quale, tra l’altro, si affermava testualmente: «…è opportuno mettere in risalto l’attività dell’Istituto internazionale di Agricoltura, realizzato con intuito previdente da S. M. il Re Vittorio Emanuele III, come aspirazione a quella unità di produzione e di scambi che sia indispensabile ad assicurare l’equilibrio pacifico nella soddisfazione dei bisogni dei vari popoli».
Poi, venne la seconda guerra mondiale, che interruppe la cooperazione internazionale che su questo tema era stata sino ad allora fervida e non aveva subito appannamenti neppure durante le crisi internazionali più acute.
L’iniziativa di resuscitare lo spirito dell’Istituto internazionale di agricoltura venne ripresa dagli Stati Uniti che, nel maggio 1943, convo­carono a Hot‑Springs, in Vir­ginia, una conferenza di Sta­ti alleati e neutrali, per la co­stituzione di un organismo permanente per l’alimenta­zione e l’agricoltura, che ven­ne fondato ufficialmente, ap­punto con l’attuale denomi­nazione di Fao, il 16 ottobre 1945 a Quebec, dove si tenne la prima delle sue conferenze biennali. In seguito all’accordo intervenuto nel 1951 con il governo italiano, la Fao fissò definitamente la sua sede centrale in Roma, succedendo, quindi, in tutto e per tutto al precedente Istituto internazionale.
A circa un secolo della sua nascita, il mondo intero ha perso la memoria delle origini di questa istituzione; e, purtroppo, anche noi abbiamo dimenticato che fu proprio il nostro Paese, per primo, a prendere coscienza del problema della fame nel mondo; e non sappiamo più neppure cosa sia stato quell’Istituto internazionale d’Agricoltura, progenitore dell’attuale Fao e, che, nei 35 anni di vita sino allo scoppio della seconda guerra mondiale, aveva svolto una mole imponente di lavoro; ma, soprattutto, aveva gettato solide basi per la cooperazione internazionale; un tema che, purtroppo, è tuttora di drammatica attualità. Di questo nostro primato, ci siamo dimenticati persino noi italiani, al punto che, dinanzi alle violenze che hanno contrassegnato il «summit» del «G 8» di Genova, proprio in casa nostra, tra consensi ed indifferenza, è stata formulata la proposta di evitare di tenere a Roma il prossimo vertice della FAO fissato per il prossimo novembre; e vi è stato addirittura chi ha proposto che sia una località dell’Africa ad ospitare non solo le future riunioni, ma la stessa sede della benemerita istituzione. Il fatto costituirebbe una novità pressoché assoluta nella vita di questo istituto nell’intero arco dei quasi 100 anni della sua storia. Infatti, ciò non accadde neppure dopo la nostra sconfitta nel secondo conflitto mondiale; pur nella delicatezza della posizione del nostro Paese, non si volle trascurare il fatto che proprio l’Italia era stato il primo Paese al inondo a lanciare e ad organizzare la crociata contro la fame già nel 1905.